Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha fornito una lettura nuova, completamente diversa ed assai discutibile, delle conseguenze dovute alla scelta del mutamento del regime patrimoniale tra i coniugi durante il matrimonio.
Con la sentenza n. 4676 del 28 febbraio 2018, la Suprema Corte ha difatti stabilito che i beni soggetti alla comunione legale rimangano disciplinati da tale regime anche in caso in cui i coniugi decidano, invece, di adottare il regime della separazione dei beni.
In altre parole, la scelta di un differente regime patrimoniale avrebbe effetti solo relativamente agli acquisti futuri, mentre per i beni acquistati in precedenza varrebbe ancora un principio di “indisponibilità”, caratteristico proprio della comunione.
Prima della sentenza, l’adozione del regime di separazione dei beni da parte dei coniugi in regime in comunione legale comportava l’applicazione delle regole della comunione ordinaria dei beni acquistati vingendo il regime di comunione.
Venivano meno, quindi, le regole proprie del regime di comunione legale e si applicavano quelle della comunione ordinaria.
La sorte delle quote di comproprietà appartenenti ai coniugi
E’ noto che la comunione legale sia una comunione particolare, e precisamente una comunione “senza quote”.
Cosa vuol dire? Vuol dire che ogni coniuge non ha una propria quota di cui poter disporre, ma solo un diritto astratto sul bene fino allo scioglimento della comunione.
Viene sancito un vero e proprio diritto di “indisponibilità” sul bene: uno dei coniugi non potrebbe, dunque, alienare la propria quota del bene comune nè tantomeno l’intero bene senza il consenso dell’altro coniuge.
Prima della sentenza n. 4676 del 28 febbraio 2018, si riteneva che la scelta del regime di separazione dei beni avrebbe comportato per i beni acquistati durante la comunione legale il passaggio automatico al regime di comunione ordinaria, con la fondamentale conseguenza di rendere disponibile per ciascun coniuge una sua specifica quota di appartenenza sui relativi beni.
Ciò vuol dire che ciascuno di essi avrebbe potuto alienare la propria quota di titolarità, anche senza il consenso dell’altro coniuge.
Con la nuova sentenza questa evoluzione automatica della comunione legale in comunione ordinaria non avviene più.
O meglio, per far sì che si instauri la comunione ordinaria, a parere della Corte, sarebbe necessario qualcosa in più della semplice modifica del regime patrimoniale dei coniugi, ed in particolare un’espressa convenzione tra i coniugi in tal senso avente ad oggetto i beni interessati.
La contraddittorietà di tale ragionamento emerge, però, dallo stesso dettato normativo richiamato dalla Corte, che prima afferma che «la natura di comunione senza quote della comunione legale dei coniugi permane sino al momento del suo scioglimento, per le cause di cui all’art. 191 c.c., allorquando i beni cadono in comunione ordinaria e ciascun coniuge, che abbia conservato il potere di disporre della propria quota, può liberamente e separatamente alienarla»., ma poi sembra dimenticare che tra le cause di scioglimento annoverate dal richiamato art. 191 c.c. vi è proprio il mutamento convenzionale del regime patrimoniale, la cui fattispecie senza dubbio più diffusa è proprio l’adozione del regime di separazione dei beni.
Nel momento in cui, dunque, viene adottato il regime di separazione, le regole della comunione legale non possono continuare a valere per effetto proprio dello scioglimento sancito dall’art. 191 c.c. ( Studio Notarile Luigi Russo)